Per una testimonianza
di Maria Cherchi
Ci trovavamo nel nostro orto. Gasperino aveva accettato di potare i nostri alberi da frutto. Era arrivato di buon mattino su un motorino capriccioso che tardava ad avviarsi e che non sembrava volerlo far ripartire. Notai che gli parlava amichevolmente e questo non mi apparve una stranezza.
Cominciò il suo lavoro. Io mi davo da fare intorno ai miei fiori, lui prendeva a potare aranci e limoni, lentamente e con molta attenzione.
Il segaccio che gli avevamo fornito funzionava, ma non tirava dritto. Un gesto mi sorprese: staccò un limone, lo segò in due parti e con il succo fragrante ungeva il segaccio di tanto in tanto. Mi avvicinai e mi dichiarai sorpresa e ammirata per una soluzione pratica che non conoscevo.
Timidamente si aprì al racconto di sé, in italiano. Raccontò di essere figlio di vignaioli e di non aver mai appreso direttamente dalla famiglia, vale a dire fin dall’infanzia, l’arte della potatura degli alberi da frutto. Solo da adulto, guardando a quel che facevano gli altri potatori aveva appreso quanto bastava per poterne fare un mestiere. Diceva: “dall’esterno l’albero rigoglioso sembra facile da affrontare; quando però si entra con la scala dentro l’albero tutto si confonde, nulla è più chiaro, si deve andare avanti cercando di capire perchè l’albero è cresciuto così e non in altro modo, e si deve sfrondarlo senza rompere la meraviglia del suo sviluppo”.
Trovai bellissima questa spiegazione, immaginando che un forte timore panico nato dall’osservazione della natura lo portasse a sentirsi nel cuore della pianta come dentro a un santuario.
Mangiò più volte alla nostra tavola e invitato mi raccomandava di servirgli verdure, minestre e contorni freschi, naturali.
Non tornò più da noi perchè di lì a poco cessò di prestare lavoro presso terzi. Lo ritrovai, sorridente ed elegantissimo, in un completo accurato, giacca, gilet e cravatta, nel nostro centro sociale anziani. Mi salutò, si dichiarò in buona salute e sereno. Lo incrociavo con il suo passo tranquillo, mani in tasca, quando andavo in ufficio e lui faceva il suo quotidiano passaggio al Centro.
Qualche tempo più tardi appresi da Nazzarena, mia storica collega di ufficio e amica, che aveva trovato ospitalità da Don Ottaviano nella canonica, dove aveva portato tutte le sue cose e fra queste i suoi manoscritti, patrimonio personale di riflessioni al quale doveva essere legatissimo. Nena gli propose di trasferire quei testi in dattiloscritto informatico, leggibile a caratteri di stampa. Probabilmente lui accettò, perchè quei quaderni passarono in mano di Nena ed io ebbi così modo di vederli. Erano pagine ordinatissime senza abrasioni o cancellature, file di quartine disposte su tre colonne in una stessa pagina in orizzontale. Mi tornò in mente l’albero al quale bisognava dare forma dall’interno: l’impaginazione esprimeva un bisogno di rigore e non certo una colta scelta estetica.
Nena portò a termine, con abnegazione e forza di volontà, il suo lavoro, e si deve a lei se questo libro ci restituisce un uomo semplice, segnato da un grande rimpianto. Mi sono prestata volentieri a correggere le bozze di questo testo e nel corso della lettura continua, così come sono continui questi testi, non interrotti da segni di interpunzione (salvo che nell’ultimo testo dove compare isolato un punto interrogativo), non mi è stato difficile cogliere il senso e la rassegnata saggezza con cui il rimpianto degli studi mancati e della formazione dell’uomo sono stati vissuti. A cominciare dal tardivo apprendimento delle potature degli alberi da frutto, alle scuole elementari che non hanno avuto seguito, alla passione per il clarinetto abbandonato con sofferenza perchè nessuno forse gli insegnò le tecniche più semplici di respirazione e emissione del fiato, al mandolino il cui studio e pratica rimasero per sempre appena dilettanteschi.
Rimpianto del sapere insomma, al quale queste rime rendono un tributo, denso e fitto come quell’albero al quale Gasperino guardava sentendone la forza misteriosa.
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